Il buco con la mente intorno: così può essere definita l’arte contemporanea, quella concettuale, quella hard, quella che guardiamo senza capire, e dentro ci diciamo “potevo farla anche io”, quella che necessita di tante astruse parole per essere spiegata, e non bastano più gli occhi per ammirarla. Eppure questa arte dell’insensatezza, della provocazione, spesso dell’orrore, ha una sua storia e cause che andrebbero conosciute sia da quelli che imperterriti la adorano, sia da quelli che vorrebbero proteggersi dal brutto ad essa connaturato. Una storia che inizia giusto un secolo fa, nell’aprile del 1917, con l’orinatoio di Duchamp e prosegue tra merde d’artista, deiezioni ed escrementi vari, water d’oro fino al 2016: una festante coprofilia che lascia alquanto perplessi e di cui Angelo Crespi “celebra” l’anniversario nel suo nuovo libro “100 anni di arte immonda” in edicola in questi giorni (fino a giovedì 2 marzo) in allegato al Giornale.
La storia è presto detta: da Duchamp, passando per la merda d’artista di Manzoni, fino al water d’oro di Cattelan esposto a New York nel 2016, l’indagine dell’artista contemporaneo sulla merda è assai intensa: il belga Wim Delvoye nel 2003 ha proposto una macchina per produrre escrementi al museo Pecci di Prato (da poco riammodernato in forma di astronave): la Turbo Cloaca è un gigantesco macchinario che Daniel Soutif, allora direttore, spiegava essere «una grande metafora, una macchina pessimistica, una sorta di visione dell’inferno contemporaneo, in un mondo che ingurgita tutto e produce disordine, escremento, entropia. Una forma di riflessione profonda sull’umanità di oggi, sulla tecnologia e sui danni che produce». Il marchingegno esiste anche in un formato casalingo, la “Mini Cloaca”, delle dimensioni di una lavatrice che ognuno può tenersi ben esposta nel tinello. Tanto per dire, Delvoye è l’artista che tatua i maiali vivi e che al Louvre ha esposto un’ardita costruzione metallica dalla forma fallica, titolandola per togliere qualsiasi sospetto, “Suppo”, da suppository (supposta).
A sua volta, nel 2008, Andres Serrano provocava i sensi con una serie di fotografie, raccolte nella mostra “Shit”, che rappresentano escrementi di vari animali, ma scattate, giurano i critici, con abilità tecnica sopraffina e delizioso senso dell’umorismo. Alla Biennale di scultura di Carrara 2010 Paul McCarthy aveva esposto una cagata in travertino (un paio di metri per quindici tonnellate di escrementi lapidei) per “combattere il capitalismo”. Sempre McCarthy nel 2013 realizzava ad Hong Kong una serie di stronzi giganti gonfiabili, alti una decina di metri. Ancora nel 2010 lo scultore cinese Zhu Cheng ha plasmato una copia della Venere di Milo in escrementi di panda; esposta sotto teca, l’opera è stata venduta a ignoto collezionista svizzero alla modica cifra di 50 mila euro. Modica spesa rispetto a “The Holy Virgin Mary”, una rappresentazione della vergine Maria fatta nel 1996 dall’anglo nigeriano Chris Ofili (Turner Prize 1998) usando oltre a un collage di immagini pornografiche anche sterco di elefante, che nel 2015 Christie’s ha battuto all’asta per 2,9 milioni di dollari.
LEGGI ANCHE:
Mettere le mutande ai Bronzi è veramente provocazione?
Se l’arte si fa con i genitali: “Vagina Monoprints”
Se l’arte è ridotta ad un cesso (d’oro)
L’anno dopo a Zurigo in occasione di Manifesta, una delle rassegne più cool del mondo, l’artista americano-tedesco Mike Buchet ha proposto in una sala sigillata 80mila chilogrammi di feci umane, ben squadrate in blocchi marroni, l’equivalente della produzione giornaliera degli abitanti della cittadina elvetica (Nb ai visitatori veniva messo a disposizione del deodorante). Ma già nel 1996 Marc Quin aveva sorpreso i paganti con le sculture “Shit Head” e con i dipinti “Shit Painting”, entrambi fatti con escrementi dello stesso artista. In conclusione, neppure la furbata di Maurizietto Cattelan di titolare “Shit and die” una mostra a Torino nel 2014, è sembrata disdicevole ai più, anzi salutata come un tocco di sano anti conformismo.
Sono però solo alcuni esempi di una interminabile serie di provocazioni scatologiche che dagli anni Sessanta arrivano a oggi. Scrive Jean Clair: «Mai l’opera d’arte è stata così cinica e ha così amato sfiorare la scatologia, la lordura e l’oscenità. E mai – fatto ancor più sconcertante – quest’opera è stata così prediletta dalle istituzioni, come ai bei tempi dell’arte di regime. Più inquietante della loro realizzazione è l’accoglienza riservata a tali opere. Direttori di musei, responsabili di grandi manifestazioni internazionali, critici di riviste e rotocalchi, tutto un establishment del gusto pare applaudire quest’arte dell’abiezione».
La risposta che spieghi tanta ostinata e osannata coproscopia non è facile, e sfocia nel filosofico, talvolta con esiti sublimi come quando il celebrato maître à penser marxista lacaniano Slavoj Žižek elabora una contortissima teoria: «Ricorrere agli escrementi testimonia l’ultimo disperato stratagemma di assicurare che il Luogo (Sacro) c’è ancora […]; L’unico modo per mantenere il Luogo (Sacro) sia di riempirlo di rifiuti e di escrementi […]; Gli artisti contemporanei che espongono escrementi come oggetti d’arte in realtà si sforzano disperatamente di salvare la logica della sublimazione».
Più in generale, il sovvertimento dei valori estetici e di quelli etici, l’ossessione del corpo come unico metro di giudizio, l’esplosione della pornografia, la fine della civiltà, anzi la negazione della civiltà (che dovrebbe pur sempre essere repressione degli istinti più animali), lo svilimento di ogni altra produzione umana che miri alla bellezza e al senso, la mancanza di trascendenza, la morte di Dio sono concause di un sistema di orrore per cui l’arte non salva più dal male, semmai lo preannuncia osannante, l’arte non è più composizione dell’informato, kosmos, bensì esaltazione del caos, l’arte non è più essere, ma nulla.