Non è mai semplice raccontare qualcosa di personale senza (s)cadere nell’autoreferenzialità, Enrico Maria Artale con “Saro” ci è riuscito, percorrendo quel filo sottile senza travalicare la soglia.
Alla 34esima edizione del Torino Film Festival, la Giuria di Italiana doc, composta da Eleonora Danco, Luciano Rigolini, Marcello Sannino, ha insignito il documentario del premio come Miglior Film con la seguente motivazione: “un viaggio alla ricerca di un padre mai conosciuto. Un documentario intimo e spiazzante diretto con incredibile lucidità e rigore. L’autore riesce a trattare la sua storia con intensità e coraggio, attraverso una struttura narrativa coinvolgente dove la dimensione personale diventa universale“. In queste poche, ma significative righe è racchiuso il pregio dell’opera. Artale, fattosi conoscere per la sua opera prima (“Il Terzo Tempo”), sceglie di mettersi in gioco in prima persona, senza scivolare in facili sentimentalismi.
Il regista ha dovuto misurarsi con un’assenza, quella del padre, uscito dalla sua vita quando aveva poco più di un anno. Sin dalla notte dei tempi – e di tutta la letteratura – il viaggio diventa non solo un percorso fisico, ma anche interiore, alla ricerca del tempo perduto se vogliamo dirla proustianamente parlando. Dopo aver chiuso quella finestra, decidendo anche volontariamente di non parlarne, un messaggio del padre in segreteria telefonica riapre una ferita non ancora rimarginata, dando il là per riparlarne in primis con le persone a cui vuole bene, a partire dalla madre, fino alla decisione del viaggio solitario – accompagnato solo dalla macchina da presa- attraverso la Sicilia. Quando avviene l’incontro non ci sono filtri. Forse, immaginando tutto ciò in un film di finzione si spererebbe in determinate reazioni, qui, però, stiamo parlando della vita concreta, in cui le emozioni non possono essere comandate. Sarà forse scontato ricordarlo, ma ci troviamo di fronte a un documentario, di cui si ha anche una percezione di onestà intellettuale e quasi ci si stupisce di tanta spontaneità rispetto a un tasto così delicato e intimo. Una precisazione: non vi verrà mostrato tutto di questo incontro – scelta apprezzabile perché denota la coscienza di un limite nel mostrare.
“Ho girato quando avevo venticinque anni […] Poi ho chiuso tutto in un cassetto, e ce ne sono voluti quasi altri cinque prima di decidermi a rivedere il materiale. Mi sono trovato di fronte ad uno stile, e ad un me stesso, in cui quasi non mi riconoscevo più. Ma ho scelto di fare i conti con questa differenza, di non girare nessuna integrazione, di creare un dialogo tra due diversi momenti del mio pensiero, di lavorare su questo materiale come se fosse la storia di un personaggio altro, e non la mia. Oltre che un atto creativo si è trattato di un atto terapeutico: ho filmato per superare un blocco psicologico, e ho montato per rielaborare delle emozioni che avevo rifiutato in un primo momento” (dalle note di regia). Ecco il potere della Settima Arte sulla vita vera.