Ci sono artisti che non avranno mai mercato. Poco male. Anche Giacomo Leopardi vende meno di Fabio Volo, ma dura nei secoli. Anche Barbana da Modena (~1328-1386) non compare nelle aste d’arte come Cattelan, ma si trova nei libri di storia, in cui Cattelan non comparirà mai, neppure nei titoli di coda. L’artista Piero Colombani, nato nel 1952 nella bassa Lunigiana, non ha mercato, e neanche lo vuole. Chi dipinge “Deposizioni dalla Croce” di 4 metri per 3 per delle chiese, come l’artista ha fatto per la chiesa di San Francesco a Sarzana, sa bene che non verrà mai preso in considerazione dai mercanti e dai collezionisti, perché oggi fare arte cristiana significa essere marginalizzati.
Lui invece continua a farlo, e da vari anni sta lavorando ad un’opera invendibile per definizione, sempre in
divenire, e chissà se sarà finita il giorno della sua morte: un codice miniato che all’apparenza ricalca i codici emanuensi, altomedioevali, una sorta di Evangeliario di Durrow del VII secolo, ma che in realtà è modernissimo: con tempere, colla di pesce, gomma arabica, inchiostro, il Codex Colombanus, così lo chiamiamo, ci parla dei desideri, inquietudini, maledizioni, astrazioni del tempo moderno, ma con un impianto stilistico che all’apparenza è gotico e che nella realizzazione pratica è lentissimo. Qui sta il corto circuito di questo pittore isolato: un mercante d’oggi va da un artista che vende e gli dice “fammi 100 opere in un anno”; Piero Colombani in un’intera vita forse non finisce il suo Codice. Sono due mondi diversi: l’artista che sforna opere come panini al prosciutto risponde al mercato, al suo cannibalismo; Colombani risponde ai secoli, e di questa lentezza (che è ricerca e messa a fuoco) gliene siamo molto grati.