Moderati alla ricerca dell’unità. Si tormentano da mesi alla ricerca di una ricetta in grado di rimettere un’area politica in competizione con una sinistra resa forte dall’effetto Renzi. Ebbene, l’unità dei moderati passa attraverso la riscoperta del proprio dna. Prendete il garantismo, bandiera storica di Forza Italia e del centro destra in generale, finito prima col perdere smalto ed essere addirittura da qualcuno rinnegato,emulando una certa sinistra a cinque stelle. Alla classe politica italiana servirebbe insomma un corso di cineforum di quelli che fino a qualche tempo fa organizzavano con successo le parrocchie. Primo suggerimento: il film “Le vite degli altri” (2006), scritto e diretto da Florian Henckel von Donnersmarck, vincitore del Premio Oscar per il miglior film straniero. Il grande attore tedesco oggi scomparso¸Ulrich Mühe, interpreta il capitano della Stasi Gerd Wiesler che viene incaricato di spiare Georg Dreyman, famoso scrittore teatrale ed intellettuale della Germania orientale. Una grande lezione: attraverso un sistema di intercettazioni si poteva (e si può) giungere a devastare la vita anche di cittadini comuni. Il secondo consiglio è “Tutti dentro”, dimenticato film del 1984 con Alberto Sordi, Joe Pesci e Dalila Di Lazzaro. Il nostro amato Albertone è Annibale Salvemini, magistrato noto per il proprio carattere “zelante”. All’inizio del film Salvemini è vice di un collega anziano che sta indagando su fatti di corruzione relativi a personaggi dello spettacolo, della finanza e della politica. Il consigliere Vanzetti, collega ormai prossimo alla pensione, non è certo della piena fondatezza delle proprie indagini, dell’effettivo coinvolgimento di molti indagati e dunque della responsabilità di tutte le persone coinvolte nell’inchiesta e pertanto non se la sente di spiccare un considerevole numero di mandati di cattura e decide così di affidare il fascicolo a Salvemini, raccomandandogli di esaminare tutta la documentazione e le varie informative con la massima cura e attenzione e di non agire avventatamente. Salvemini agirà con assai poca attenzione e firmerà centinaia di ordini di cattura, tra gli altri ai danni di un apprezzato (e poi innocente) conduttore del Tg2, Enrico Patellaro, nella cui storia e nelle cui sembianze non è difficile rinvenire la volontà di Sordi di spezzare una lancia in favore di Enzo Tortora (il cui caso risale al 1983).
Terza pellicola, emblematica, è “In nome del popolo italiano” (1971), diretta da Dino Risi, nella quale il giudice istruttore Mariano Bonifazi (Ugo Tognazzi), indagando sulla morte di una giovane prostituta, prende di mira l’imprenditore Renzo Santenocito (Vittorio Gassmann), imprenditore spregiudicato, che gode di influenti amicizie e che fa soldi corrompendo funzionari pubblici, inquinando e deturpando il paesaggio con veri e propri scempi edilizi. Il film di Risi – pietra miliare della cinematografia italiana – con disarmante lungimiranza, vede Santenocito che viene prelevato dalla polizia giudiziaria mentre partecipa a una festa vestito da antico romano. Immagini che riportano alla festa in maschera “Olympus”, organizzata da esponenti del Pdl di Roma nel 2010. In un crescendo drammatico, Bonifazi, quando pensa ormai di dover incriminare per omicidio Santenocito, entra in possesso del diario della giovane morta che annuncia il suicidio. Caso risolto? Non proprio. Bonifazi si trova a leggere il diario per strada proprio nel momento in cui l’Italia vince ai mondiali contro il Regno Unito. Tra le urla e gli atti di teppismo dei tifosi festanti, Bonifazi intravede i peggiori vizi comportamentali dell’italiano cialtrone e poco di buono da lui identificato in Santenocito. Disgustato proprio da quel «popolo italiano», il magistrato getta tra le fiamme di un’automobile inglese incendiatasi dopo essere stata ribaltata dai tifosi italiani la prova dell’innocenza dell’avversario.
Quarto, indimenticabile prodotto del cinema italiano sulla malagiustizia, sugli effetti della carcerazione preventiva e le lentezze del nostro sistema giudiziario, infine, un capolavoro di Nanni Loy, “Detenuto in attesa di giudizio” (1971), che ha ancora una volta per protagonista il nostro amato Sordi. Il povero geometra romano Giuseppe Di Noi, accusato della mirabolante (e infondata) accusa di «omicidio colposo preterintenzionale», verrà arrestato non appena giunto alla frontiera italiana. Il lungo periodo in carcere, appunto “in attesa di giudizio”, lo vedrà vittima di umiliazioni e brutalità che lo segneranno irrimediabilmente sul piano fisico e psicologico. La “Cinecittà moderata” che ha reso grande il nostro cinema aveva le idee più chiare di giornalisti, politici e registi del giorno d’oggi. Garantismo, giustizia giusta e tempestiva, condizioni carcerarie umane, certezza della pena, indipendenza della magistratura e terzietà del giudice devono ancora passare dal grande schermo alla vita reale. * autore de “Il brutto anatroccolo. Moderati: senza identità non c’è futuro” (ed. Lindau)