E’ stato uno dei maggiori innovatori della lingua italiana e uno dei più prolifici neologisti della lingua italiana del Novecento. E’ stato anche uno dei più aulici e raffinati liristi del Novecento. Stiamo parlando, ovviamente, di Gabriele D’Annunzio. Ma fu solamente questo, D’Annunzio? Identificare il poeta pescarese con la lingua italiana è passaggio automatico e del tutto fondato, ma un libro di recente pubblicazione mostra quanto il Vate sia stato anche permeato da una viscerale “abruzzesità”. Si intitola D’Annunzio e il suo dialetto (Solfanelli, pagg. 74, euro 8) il volumetto scritto a quattro mani da Licio Di Biase e Daniela D’Alimonte, una raccolta di due saggi che vanno a scandagliare la produzione dialettale abruzzese di D’Annunzio.
Nel primo saggio, firmato da Licio Di Biase, si ripercorre meticolosamente Lu dialette de D’Annunzie, come recita – rigorosamente in dialetto – il titolo del contributo, attraverso nove testi: il sonetto Quant’è belle lu journe de Sant’Anne, il sonetto A l’Abruzzise de Melane, il sonetto A Cirucce Mastrangele, la breve epistola A che la sbruvigniate de Mariette, il madrigale A Luiggine d’Amiche, la doppia quartina A Galdine e Remigge Sabatine, il sonetto La purchetta d’ore (A Giacumine Acerbe), la quartina I biscotti d’Amico e una lettera a Luiggìne.
In essi, scrive Di Biase, emerge «la vera anima di d’Annunzio e la sua carica di goliardia, di ironia e di spirito popolare, usando termini anche licenziosi, dato che il poeta si rivolge agli amici di sempre; egli fa ricorso al vero dialetto, quello che evidentemente parlava da ragazzo o che ascoltava in casa»
Nel secondo saggio, Le poesie di D’Annunzio in dialetto: uno studio linguistico, la linguista Daniela D’Alimonte analizza tecnicamente e da un punto di vista rigidamente linguistico, i sette componimenti poetici in dialetto del Vate di Pescara. Secondo l’autrice, «sono testi particolari, nati all’insegna del passatempo e del divertissement; direi che sono, soprattutto alcuni, delle prove goliardiche, in cui l’uso del dialetto è, se vogliamo, ancora diversificato rispetto a quello che fa in altre opere, ad esempio nelle Novelle della Pescara dove vi è sotteso un preciso intento letterario. Qui si tratta di un esperimento linguistico in cui il richiamo al parlato è certamente consapevole ma determinato da uno spirito e da circostanze particolari. Le poesie sono tutte missive ad amici, sono per lo più scritte con il fine di ringraziare per un regalo ricevuto, sono lettere di saluto a persone che conosce bene, persone del suo Abruzzo con le quali sa che può esprimersi in vernacolo in virtù di una certa confidenza».
Ecco, arrivati in fondo alla lettura dell’agile libello si riesce perfettamente a comprendere quanto la lingua dannunziana abbia potuto attingere a piene mani anche dal dialetto. Anche in questo, forse, risiede uno di segreti della fantasia linguistica del Vate.