All’italiana: trivelle sì, trivelle no, se famo du spaghi. Non si fa altro che parlare di estrazione a qualche giorno dal referendum. E di trivelle e permessi, di multinazionali e di voto. Di voto, sissignori. In tempi in cui non si riesce proprio a decidere chi governerà il nostro Paese passando per le urne, in pieno e sacrosanto amplesso democratico, bisogna andare a fare la fila ai seggi per il petrolio. Ma forse è giusto così. Trivellare o non trivellare, questo è il problema? O meglio, continuare a trivellare il fondo del mare a 12 miglia dalla costa, come già accade da anni, per estrarne idrocarburi – petrolio (olio greggio), gasolina, gas, sia onshore che offshore – o farla finita definitivamente, cancellando la norma che consente alle società petrolifere di avere concessioni di ricerca e di estrazione senza limiti di tempo, per ridurre l’impatto ambientale, mettere al riparo le coste italiane dalle attività petrolifere e spingere significativamente (e intelligentemente) sulle energie rinnovabili e relative tecnologie? Concessioni, permessi, divieti. Civili assunzioni di responsabilità. Di gas, ma soprattutto di quell’olio viscoso, oro nero, salvifico strumento per le multinazionali all over the world, giustificazione di screzi e guerrette, predomini e speculazioni, follie internazionali, l’Italia ne ha poco. A detta degli ambientalisti neanche l’1% del fabbisogno nazionale (mentre per il gas ci si attesta tra il 3 e il 4%), figurarsi.
Tesori nascosti di valore. Nell’Italia di Messer Renzi, quella dei 51 siti Unesco inseriti nella Lista del Patrimonio dell’Umanità, quella in cui cultura può essere sinonimo di speculazione (vedasi il millantato bonus cultura del “governissimo” per i nuovi 18enni, al motto di libro e maggiorenni, governeremo per ventanni), la stessa in cui si destina solo l’1,4% del PIL alla cultura piazzando così il nostro Paese penultimo in Europa (penultimo!), sopra alla Grecia, ed in cui “a dispetto delle vanterie – si legge sul Corsera -, ricaviamo dall’industria turistica meno della Germania o della Gran Bretagna sia in termini di occupati sia di soldi”, piazzandoci ottavi dietro a Germania, Giappone, Regno Unito, Francia e Messico (sì, anche al Messico) per contributo del turismo puro al Pil (76,3%), c’è un altro tesoro da portare alla luce, senza trascuratezze, senza tentennamenti, da coccolare e tutelare seriamente, su cui investire e su cui fare uno sforzo comune: il nostro patrimonio artistico e culturale.
Ma perché la politica, davanti a un tema così centrale, sembra distratta? Ribadiamo anche noi. Forse perché pensa troppo alle banche. La stessa politica che, guardacaso, ha da sempre le idee chiarissime in merito al sostegno alle multinazionali, talmente, forse, da riuscire a sentire Matteo Renzi dire, nel corso della diretta Twitter e Facebook #Matteorisponde, “spero che questo referendum fallisca”, in merito al 17 aprile, o come quando, solo per fare un esempio, riformando il titolo V della costituzione “più bella del mondo”, si finì per fare un “bel regalo ai colossi stranieri dell’energia privatizzando i servizi di acqua, luce e gas” (leggete un po’ qua)
Valenze simboliche (e concrete): il nostro mare – che smetta di essere teatro osceno della umana brutalità, mero mezzo delle storture della modernità, dalle vittime dell’immigrazione, all’inquinamento, alla speculazione in nome del dio denaro -, il nostro ambiente, la nostra eredità millenaria.
Votiamo Sì al referendum del 17 aprile, pensando che le trivelle che vogliamo vedere sono quelle per la cultura, vero oro del nostro Paese, della nostra identità.
L’utopia non servirà a nulla, forse, ma almeno è necessaria per continuare a camminare, parafrasando Eduardo Galeano