“In Italia meno intrattenimento e più arte teatrale!”

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Il teatro italiano è in fermento. Oltre ai volti noti del cinema nostrano che alternano le riprese dei film a spettacoli di successo, c’è una nuova generazione di attori e registi che, pur non godendo della stessa popolarità, prova a farsi valere con idee originali e talento. Uno di essi risponde al nome di Joele Anastasi, classe 1989, origini catanesi e fondatore insieme a Enrico Sortino della compagnia Vuccirìa Teatro. Dal 16 al 26 marzo andranno entrambi in scena al Teatro dell’Orologio di Roma con la loro terza pièce dal titolo Yesus Christo Vogue – Tragedia impossibile in atto unico.  Lo spettacolo precedente, Io mai niente con nessuno avevo fatto, ambientato nella Sicilia degli anni ’80 e recitato in dialetto, gli è valso la vittoria sia al Roma che al San Diego Fringe Festival. Anastasi, con la complicità dei suoi appassionati colleghi, prosegue un interessante percorso artistico connotato da arguzia e ricercatezza e avallato dal costante riconoscimento da parte di un pubblico voglioso di nuove esperienze ed emozioni.

Quali sono le caratteristiche che contraddistinguono questo suo nuovo spettacolo?

L’assunto di partenza era ricreare una nuova sacralità in quest’epoca in cui non sembra più possibile avere una dimensione sacra della società. Lo spettacolo parla del delirio di onnipotenza dell’essere umano contemporaneo e lo fa attraverso due binari liturgici principali: il racconto lineare della storia di due personaggi, Lui e Lei, gli ultimi due esseri umani rimasti sulla terra che si muovono in uno scenario post-apocalittico e la solitudine (in via performativa) che la fa da padrona.

Come si pone lo spettacolo nei confronti del Cristianesimo?

Contrariamente alla via suggerita dal Cristianesimo che promette il paradiso e crea il mito di un mondo senza dolore, i nostri personaggi si ricongiungono attraverso l’accettazione del dolore. Da qui l’idea di ripercorrere le tappe della Passione di Cristo sotto forma di viaggio intrapreso dall’uomo contemporaneo.  Lo spettacolo non si pone come una critica del Cristianesimo, di cui conserva alcune caratteristiche tradendone delle altre. Nell’opera assume centralità la crisi che abita l’uomo alla continua ricerca di una spiritualità.

Definirebbe il suo teatro sperimentale?

Il tentativo può essere sicuramente definito sperimentale ma la messa in scena si fonda sul testo, sugli attori e sul rapporto empatico che cerchiamo di creare con il pubblico. Il nostro obiettivo è far vivere un’esperienza allo spettatore attraverso un connubio tra una via sperimentale e una più lineare.

Non è una sfida impossibile nell’era della distrazione?

Sì, oggi fare teatro è diventata un’impresa perché non siamo più nella posizione di vivere nel tempo presente. Lo spettacolo in fondo è incentrato proprio su questo: un uomo e una donna, Adamo ed Eva al contrario, che in una sorta di sogno impossibile si riappropriano del proprio corpo diventando dei punti di partenza per la creazione di una nuova umanità.

Nello spettacolo precedente mettevate in scena l’ignoranza, la brutalità e l’omofobia. Crede nel valore civico del teatro?

Facciamo teatro per cercare di comunicare direttamente con il pubblico. Credo nell’azione edificante del teatro all’interno della sensibilità dell’essere umano, che a più livelli può assumere un valore civico e politico. Non so quanto possa contribuire ad un cambiamento reale. Indubbiamente è il massimo sforzo per il minimo risultato. Rimaniamo convinti che il teatro sia un disperato tentativo di cambiare il mondo. Non a caso nei nostri spettacoli la solitudine si trasforma in comunicazione, e l’individuo abbraccia la collettività.

Lei è andato via dalla Sicilia per studiare ed inseguire il tuo sogno di fare teatro. Era impossibile farlo nella sua terra?

Non credo sia impossibile anche se la carriera artistica non è molto facilitata nel nostro Paese e ancor meno in un’isola seppur ricchissima di cultura e di umanità. Difendo le mie origini ma in termini di possibilità questo diventa relativo. Ad ogni modo credo che lo spostamento, il viaggio, costituiscano una tappa obbligata per un artista, un arricchimento imprescindibile per scoprire se stessi e il mondo.

Che cosa dobbiamo imparare ancora dagli altri Paesi per sfruttare il nostro patrimonio artistico?

All’estero c’è un’attenzione maggiore nei confronti della cultura, perché è la politica che ne riconosce l’importanza. Non credo che sia colpa del pubblico che sceglie l’intrattenimento. La sua diffusione andrebbe limitata o quantomeno accompagnata da forme d’arte più edificanti. Questo è quello che manca al nostro Paese.