Sin da quando lo spettatore afferra la cartella stampa personalizzata della Compagnia Fibre Parallele di Bari, è incline a diffidare di quel rigoroso e millimetrico zelo che dedica al packaging dello spettacolo assai più del canonico foglio di sala. Ma quando si addentra nella penombra di quell’angusto sottoscala d’immaginario apparecchiato alla meglio, sotteso al lavoro degli attori e autori pugliesi Licia Lanera e Riccardo Spagnulo, “Lo splendore dei Supplizi”, egli non può far altro che annegare nei dubbi osservando un breviario di casi umani vigilati da un boia incappucciato che veglia su torturati e torturatori del nostro tempo. Quattro ministorie per raccontare, in sequenza, ossessioni quotidiane, orrori e paradossi che segnano l’epoca corrente, intimamente punitiva.
Si incomincia con due coniugi incatenati a un sofà-carcere che snocciolano un’intera parabola amorosa non inscenando alcuna interazione diretta, senza corpo, dalla fioritura all’appassimento dei sentimenti, in una gragnuola d’improperi distaccati e impersonali di tradimenti rinfacciati e sgranocchiabili da stupori collettivi telecomandati , di bassezze troppo codificate e di maniera per raffigurare solitudini verosimili. Una vitalità maggiore presenta il secondo quadro, il più riuscito, che abbozza la pena inconsapevole di un giocatore compulsivo di videopoker, rinchiuso nella sua camera colma di nulla e satura di fantasmi da cui scappare e infine ubriaco del rumore inebriante delle slot, un vero cappio sonoro, tintinnante come una ninna nanna macabra appesa all’unica emozione che rimane al protagonista dopo essere stato privato dei suoi scarsi beni: una disperata avidità. La penultima fiaba nera s’apre con raffiche di didascalie e stereotipi che delimitano le azioni mute dei due personaggi. Lui è un vecchio razzista non autosufficiente fasciato in un pannolone contenente escrementi tricolori. Tramite una voce fuori campo sappiamo che odia “i negri” e gli “stracomunitari”. Lei è un prototipo di badante bionda dalla caricaturale fisicità balcanica che pare ricalcare la comicità demenziale di Irina Scassalcazzeiaj, creatura dei Broncovitz prima maniera.
Chi assiste alla scena ha la sensazione claustrofobica di non poterla neppure azzardare un’interpretazione perché ogni significato sembra compreso e compresso nel suo giro di giostra al Luna Park dell’Impegno, il signore nazionalista è l’omino grassoccio e canuto con baffi vagamente hitleriani, un accento napoletano da anziano generale frequentatore di bordelli, lo sfondo musicale è occupato dal brano “ un italiano vero” la hit sempreverde del Toto Cutugno nazional-popolare, adatta a parodiare meglio, ancor più smaccatamente, un senso patrio da operetta, gracchiante come un grammofono. La ragazza, interpretata da un uomo, non rappresenta ma esibisce il cliché plastificato della schiava-slava multiuso abile soltanto a barricare i propri gesti dietro una stizza autoreferenziale da cui non si indovina neppure l’ombra d’una malinconia autentica o d’una rabbia intuibile. Ci si affaccia a sbirciare i particolari di un’arte viva riuscendo solo a scorgere la mutezza di diapositive a scopo pedagogico. L’ultima caramella amara, offerta da questo distributore di merci d’intrattenimento dal sapore rapidamente consumabile, ha un titolo, il vegano, e il seguente canovaccio: due operai rovinati dalla crisi economica rapiscono un tizio benestante, oltranzista del veganismo, seviziandolo e usando come arma d’aggressione gli stessi cibi detestati dalla loro vittima mentre corrono le note di La mer, di Charles Trenet.
Sorprende che un’idea simile abbia garantito successi di critica e pubblico. Perché a questa processione di caratteri manca ogni accenno di vita. Se la partitura di ipotetiche invenzioni si rapprende e la rappresentazione diviene pura presentazione e giustapposizione di iperboli in maschera da acclamare o deridere in sintonia con la fissità disumanizzante di un vizio che deforma i supplici narrati, se nulla trascende questi burattineschi idealtipi della miseria, muovendoli oltre le connotazioni che li rendono immediatamente riconoscibili e fruibili da platee di ceti medi in cerca di rassicurazioni sulla propria illuminata diversità dai deprecabili paradigmi sociali passati in rassegna, rimane solo la sofferenza come brand, il disagio come piatta materia buona per l’innesco di reattività di gruppo e una pletora di solitudini da esposizione, immodificabili cose tra le cose, oggetti d’ammirazione o di disgusto, shock emotivi buoni per l’approvazione o il dileggio di massa, di fatto dipendenti da quei dispositivi ideologici del consenso rifuggiti e sovvertiti dai migliori ingegni drammaturgici contemporanei.
Nel racconto di queste marginalità quello che chiamano teatro civile si trasforma in una scimmiottatura affettata dell’esclusione. Lo scopo è averla di fronte, confinarla tra coordinate morali nette, desiderabili e inequivocabili, consumarla assieme all’oliva dell’aperitivo, nel cicaleccio delle pubbliche opinioni che hanno l’abitudine di mantenersi pubbliche come i sorrisi stiracchiati di certi pierre. E la scena diviene un logoro giocattolo di opinioni da smontare e rimontare a proprio (com)piacimento finché non si esauriscano i pezzi di ricambio di una fantasia impiegatizia che sa spingersi soltanto sino al buio e agli applausi finali.