«Questa commedia è scritta in un dialetto antico, quindi sarà difficile comprenderne tutti i particolari. Voi non dovete fare nessuno sforzo per capire, siamo noi che, recitando, dobbiamo sforzarci di farvi capire e ci riusciremo. Non dovete, però, chiedere al compagno: “che hanno detto in questo momento”. È perfettamente inutile perché quello che dovete capire, noi vi faremo capire, il resto, durante le litigate, quando ci sono le scene d’insieme, sono vocii […] è musica, è panorama di Napoli. Quello che serve all’economia della commedia ve la faremo capire noi».
Abbiamo voluto riprendere queste parole pronunciate, nel 1955, da Eduardo De Filippo ad ouverture del suo “Miseria e nobiltà” all’Odeon di Milano perché sono ancora profondamente vere e applicabili all’attualizzazione operata da Michele Sinisi.
Senza tradire lo spirito del testo originale di Eduardo Scarpetta (1888), forte della tradizione, ma anche del percorso personale compiuto sino ad ora, l’artista pugliese ha scritto con Francesco M. Asselta una partitura che sembra cucita addosso all’ottimo cast, facendosi contaminare dalla lingua (a partire dal suo dialetto d’origine, ma non solo) e dal linguaggio cinematografico.
Il suo allestimento di “Miseria e Nobiltà” è scarno, in linea sia con la cifra stilistica di Sinisi che con la storia stessa. Felice Sciosciammocca (Gianni D’Addario) è un uomo costretto a ricorrere ad espedienti, vive alla giornata facendo leva sull’arte di arrangiarsi, proprio come l’amico Pasquale (Ciro Masella) con cui divide un piccolo appartamento. Entrambi portano il fardello di dover sfamare donne e figli e il peso della fame si sente sin dalle primissime battute tra Concetta (Diletta Acquaviva) e Pupella (Francesca Gabucci), rispettivamente moglie e figlia di Pasquale. Figura cardine, ancor più in questo adattamento, è Peppeniello, figlio di don Felice, incarnato dallo stesso regista che si fa uno, nessuno e centomila. Sinisi gioca con questo ruolo, senza gigioneggiarci troppo (e il rischio c’era). A tratti sembra l’autore che vuole controllare i suoi personaggi, altre volte li corregge, passando per la funzione di servo di scena e non si dimentica mai quella di spettatore.
Sottotitolo di questa tragicommedia umana è “del mestiere del vivere recitando…” e in “Miseria e Nobiltà” si pone davvero in campo l’arte della commedia, sfruttando all’osso lo spazio scenico, creando cortocircuiti riusciti anche con proscenio e platea e offrendo generosamente al pubblico di turno tutta la propria capacità.
Anche chi non ha mai visto il film di Mattioli del ’54 reso celebre da Totò, si ricorda il momento degli spaghetti in cui la fame viene stoppata (non saziata) o la battuta «Vingenz m’è padre a me». Rendere merito a un classico simile, «pedana di lancio per gli attori dialettali» come diceva De Filippo, mettendovi anche le mani, non era impresa semplice, ma questa compagnia ne è stata all’altezza, rendendo universale il tutto. Si ride tanto, scivola giù come se fosse bevuto tutto d’un sorso, ma il sapore amaro in bocca prende sempre più piede man mano che la storia prosegue. La miseria è ben diversa dalla povertà e ce lo mostrano l’evoluzione della commedia così come alcuni gesti delle persone che stanno recitando a soggetto, anzi ci mostrano noi stessi. In che stato si ridurrebbe l’uomo se perdesse la dignità e la libertà? Questa farsa lo svela, lo fa senza giri di parole e alla fine sappiamo bene che si tratta di un affresco molto vicino a noi.
Ci teniamo a sottolineare un oggetto che ci ha colpito molto, il lampadario costruito con cucchiai e cucchiaini, pronto a creare riflessi, giochi di luce, ma a farsi anche bottino.
Servendosi di cesure che richiamano il montaggio cinematografico, Sinisi scandisce il ritmo, sfruttando anche la botola, e come il bambino di “Nuovo Cinema Paradiso” conserva persino uno sguardo sognante. Sono gli occhi di chi guarda al di là della miseria umana (de)scritta e del luccichio della nobiltà e si perde nel gioco del teatro e del cinema, rimanendo, al contempo, attaccato alla realtà.
«Torno nella miseria, però non mi lamento: mi basta di sapere che il pubblico è contento».
Lo spettacolo torna in scena al Teatro Sala Fontana di Milano dal 26 dicembre 2015 al 3 gennaio 2016.