Rembrandt, Il Bugatti che nessuno vi racconta…

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Edgardo Franzosini, Questa vita tuttavia mi pesa molto, Adelphi, 2015

Caino e Abele, Romolo e Remo. Un fratello in luce, un altro in ombra: la storia, sacra e profana, inizia così. Ed ecco Rembrandt Bugatti, scultore, fratello dell’imprenditore milanese dell’automobile e creatore dell’elefantino danzante, simbolo della Bugatti Royale, l’automobile dei re. E’ proprio al fratello maggiore che lo scultore confessa: “Questa vita tuttavia mi pesa molto”. Ed è proprio con questa confessione che Edgardo Franzosini ha intitolato il suo nuovo libro da poco uscito per Adelphi (pp.117, € 12,00).

Scrittore di vite spettrali come quella di Bela Lugosi, o come quella di Raymond Isidore, custode di discariche e cimiteri che costruì una cattedrale fatta di detriti, Franzosini questa volta si è occupato della biografia di un uomo dal nome pittorico. Figlio d’arte e nipote di Giovanni Segantini, Rembrandt è quasi un personaggio ultramondano. Sarà perché, a detta della portiera dello stabile in rue Joseph-Bara, la sua espressione lo fa somigliare a Buster Keaton, sarà perché aveva un’aria talmente altrove che lo chiamavano tutti “l’Aristocratico”, oppure perché aveva una sola fissazione: gli animali esotici. È per loro che ha vissuto sempre sulla soglia, con lo sguardo rivolto verso un altro mondo.

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Una delle sculture di Bugatti

Nato a Milano, si trasferisce a Parigi poi ad Anversa ma è come se fosse stato tutta la vita in un’unica città. Solo una cosa, infatti, era essenziale: lo zoo. Non i café-chantant, i musei o i cinema dove s’intrattenevano gli altri artisti. Lo zoo era il suo centro di gravità, l’ombelico di senso dove si rifugiava continuamente per studiare le abitudini degli animali, la loro carne, il loro piumaggio. Si posizionava davanti alle gabbie del Jardin des Plantes e li osservava, giorno e notte, per poi fissarli in bronzo. Bugatti scolpiva l’azione, piccole statuette in moto perpetuo: la giraffa che piega il collo, la tigre che attacca, l’elefante che scalcia. Poco più di cento pagine per entrare nella sua breve vita. Morto suicida a 32 anni, l’8 Gennaio 1916, non ha superato la Grande Guerra né il sacrificio degli animali dello zoo di Anversa, uccisi da un plotone per paura di una fuga, a causa dei bombardamenti.

Rembrandt Bugatti è il rimosso della storia perché lui stesso ha voluto restarne fuori. Come quando seppelliva i motori costruiti dal fratello nel giardino in Alsazia, dall’altra parte del fronte, per nasconderli ai tedeschi. Bugatti voleva restare fuori da quella storia. Come i suoi animali senza progresso. Come la scrofa di Lutero che vive ma non esiste, che non pensa alla morte e non sente altro che “la sola vita, un’eterna vita”. Nel suo studio in rue Duméril nessun animale domestico, nessuna modella dal collo lungo.

Bugatti insieme a una sua modella
Bugatti al lavoro con una delle sue modelle

Solo due antilopi del Senegal senza nome, la piccola e la grande, come scrive Franzosini: “Le contempla mentre masticano le foglie di insalata e le piccole mele verdi, il granturco, le carote con cui riempie la vasca da bagno, divenuta la loro mangiatoia. “Resteranno un poco con me – dice alla madre -sono appena più grandi di un cane”. Madame Bugatti si piega, con il naso che quasi tocca il pelo sul dorso di una delle antilopi: “Però hanno un odore che fa vomitare” dice. E aggiunge:” Comunque, contento tu”.
Era contento. Quella stanza era, per Rembrandt, l’Africa, la Genesi, la Natura. 
Finì per rimanere chiuso nella sua stanza-gabbia, dentro il suo autoritratto preferito con le fattezze di un marabù, suo animale totemico. A differenza di Jacques Derrida, che, scrutato dal gatto, si vergogna di essere nudo come una bestia, constatando che pensare comincia forse proprio dal pudore del corpo, Bugatti non prova alcun disagio di fronte agli occhi delle antilopi, ai suoi stessi occhi. Ed è proprio in questo sguardo ultimo che il pensiero finisce e inizia l’opera.