“È più facile sostituire uomini che implementare mezzi”. Il generale Cadorna rimase di quest’idea anche dopo Caporetto (ottobre 1917, 10mila vittime), che pure gli costò subito la rimozione dal comando. A sostituirlo, il generale Diaz, “il solo che ci ha ringraziati”, dice ai suoi commilitoni il toscano del gruppo, pizzo e baffetto dannunziani, nelle prime battute di Tu sei la mia patria, spettacolo ottimamente scritto e diretto da Francesco Sala e ideato da Viola Pornaro, che ieri sera è andato in scena a Castel Sant’Angelo (Roma).
Cent’anni fa, l’Italia Unita andava alla sua prima prova da Nazione: la Grande Guerra, la prima e meno raccontata del secolo breve – il secondo conflitto mondiale sembra considerato più meritevole di attenzione, sebbene Bloch sostenesse che i fatti da studiare fossero i più lontani. Quello che Sala e Parnaro portano in scena, tuttavia, non è una disamina storica, ma un diario. Vibrante, carnoso, schietto.
Capire la storia è un conto che si apre con i libri e che è fondamentale lasciare aperto: a questo serve la memoria. E alla memoria serve il teatro che, per Sala, “è energia al presente, può farci ricordare chi siamo e su quali sofferenze si basa la nostra identità”. I 10 attori, bravissimi, delle scuole Fonderia, Fondamenta e Accademia Drammatica Silvio D’Amico, cui si aggiunge la voce narrante, lucidissima, di Roberto Citran, sono batterie vive. Lo spettacolo, scandito dalle lettere dei soldati dal fronte, è un’orchestra di movimenti, ricrea la trincea e, soprattutto, il puzzle scapestrato di accenti, microstorie e desideri che era il nostro paese. Un puzzle unito col sangue di uomini ingenui, però consapevoli della contraddizione: “per far vivere l’Italia, dobbiamo morire”.