Mentre si misura il voto regionale, la cultura offre un risultato chiaro alle prime elezioni sindacali tenutesi dopo vent’anni al Teatro dell’Opera di Roma.
Qui la UilCom-Uil registra una straordinaria vittoria sfiorando il 40% dei voti mentre il Maestro Melis, suo storico leader, primo degli eletti, ha raccolto da solo l’11% delle preferenze.
Scomparse o fortemente ridimensionate, le sigle che hanno cercato di riportare all’atmosfera di scontro già vissuto al Teatro Costanzi durante il drammatico 2014 dell’abbandono del Maestro Muti e degli scioperi che fecero saltare la Boeheme a Caracalla.
Il voto, espresso dalla massiccia presenza dei 460 lavoratori a tempo indeterminato, illumina i tanti paradossi dell’Opera di Roma e della lirica. Come 1) l’oscuramento mediatico subito dalla maggioranza dei lavoratori che non scioperò contro il piano industriale e che anzi lo sostenne con un referendum ad hoc assieme ad accordi meno onerosi di quelli accettati da tutti i sindacati dopo il clamoroso licenziamento, poi rientrato, dei 182 coristi e orchestrali.
2) Il paradosso di aver ritratto da rissosi privilegiati, artigiani, sarti, scenografi, coristi, orchestrali, amministrativi, tecnici che hanno sempre chiesto di lavorare di più con più rappresentazioni, calate dalle 230 di un tempo ai 90 del momento peggiore. Come di valorizzare il magnifico lavoro espresso in decine di migliaia di scenografie e costumi stipati nei magazzini senza ricorrere a nuovi appalti esterni.
3) Il paradosso degli iperdemocratici dello scontro sbandati tra il tentativo di impedire fino all’ultimo l’espressione libera del voto dei lavoratori e quello di ergersi a salvatori dell’Opera invece di riflettere sugli errori commessi.
4) Il paradosso del boomerang degli scioperi show alle prime, tentati da ultimo all’Expo ed al Maggio Fiorentino, che hanno prodotto moratorie sulle agitazioni sindacali senza aiutare i lavoratori. Senza dimenticare che lo sciopero viene pagato se lo spettacolo non va in scena anche chi ha lavorato nella produzione.
5) Il paradosso della mentalità dell’esclusivo finanziamento a fondo perduto, contraria all’idea di una lirica dai ritorni economici diretti ed indiretti, quando il 34% delle opere cantate nel mondo sono italiane ( 15% solo di Puccini e Verdi) ed il maggior produttore di spettacoli è la Germania, paese che non ama notoriamente il deficit.
6) Il paradosso della legge Valore-Cultura che attribuisce i debiti passati di 30 milioni a Roma e 360 nell’insieme delle fondazioni al costo del lavoro che non pesa più del 20% e non mette mano, come richiesto dalla Corte dei Conti, agli sprechi sugli allestimenti, ai compensi dirigenziali, ai noleggi fuori mercato, ai titoli inopportuni, alle produzioni faraoniche.
7) Il paradosso normativo di non aver associato il Tax Credit all’allargamento al settore dell’Art Bonus e quello organizzativo di mancare nella cooperazione, da sempre limitatissima, tra le 14 fondazioni liriche come richiesto da tempo dai lavoratori.
Di paradosso in paradosso, come si vede la vera realtà della lirica non è quella che si racconta. Ora all’Opera di Roma restano solo tre sigle, con una larga maggioranza moderata e riformista. “Non tutti i sindacati hanno dato il loro contributo alla migliore gestione del teatro” ricorda Melis. “Semmai il contrario”.
I lavoratori della cultura devono sempre guardarsi da un lato dagli scontri partitici che usano l’arma strumentale della battaglia culturale e dall’altro dalla voglia di lasciar perdere magari per trasformare i luoghi culturali in contenitori vuoti, senza maestranze, utili per il brand nei grandi eventi. Con il traguardo dovuto, di legge, del risanamento del 2016 e quello di fronteggiare i nemici della lirica ha prevalso il sindacato propositivo.