Il 6 maggio 2015, Orson Welles avrebbe compiuto 100 anni. Invece se n’è andato a 70, il 10 ottobre del 1985, lasciando un pugno di film realizzati (12, per la precisione), un cumulo di film progettati, girati a metà o meno oppure solo sceneggiati e una montagna di debiti. Eppure non sarebbe dovuta andare così per il ragazzo prodigio di Kenosha che neanche maggiorenne è già un mattatore del palcoscenico e, ventiseienne, dirige e interpreta Quarto potere (Citizen Kane), il suo primo capolavoro, anno di grazia 1941.
Dalla fine degli anni Sessanta, avrebbe passato gli ultimi vent’anni della sua vita a inseguire chimere, produttori e progetti irrealizzati e irrealizzabili, oltre che a interpretare spot pubblicitari e a inanellare comparsate in qualsiasi show gli fosse proposto.
Un artista popolare, non un intellettuale
In pratica la sua parabola professionale come regista cinematografico durò dal 1941 al 1968, da Quarto potere a La storia immortale, passando per L’orgoglio degli Amberson, Il processo, Rapporto confidenziale, Lo straniero, La signora di Shangai, Othello e così via.
La versione più diffusa vuole che Welles, dopo Quarto potere, diventò inviso a Hollywood: autore prima che nascesse il concetto di cinema d’autore non poteva essere ingabbiato nei rigidi schemi della fabbrica produttiva hollywoodiana, che quindi lo respinse e lo costrinse a cercare gloria e soldi in Europa e in giro per il mondo… Un’etichetta che il suo protagonista detestava e che cercò invano di scrollarsi di dosso.
Avrebbe voluto essere un artista popolare: “Shakespeare era un artista popolare. Dickens era un artista popolare. Io vorrei esserlo, ma non lo sono. Assomiglio di più a Céline, che scrive libri su libri che nessuno legge mai”. E nemmeno si riconosceva nella “politica degli autori” messa a punto negli anni Cinquanta in Francia, per cui non ci sono opere, ma autori: “Non sono d’accordo, credo che ci siano solo opere”. Perché “non esiste la cultura cinematografica, solo un enorme mucchio di film” e “più la gente di cinema si tributa reciproci omaggi più si inchina ai film invece che alla realtà e più si approssima all’ultima scena della Signora di Shangai, una serie di specchi che rimandano riflessi”.
D’altra parte la politica degli autori risentiva di accademia e Welles detestava l’accademia: “Credo sia un dovere dell’artista fare tutto il possibile per evitare di essere accettato dagli accademici”.
Diceva di voler “usare la macchina da presa come strumento poetico”, ma poi sommergeva una frase così altisonante con un’altrettanto altisonante risata, aggiungendo che erano affermazioni da fare ai festival di cinema europei.
Un attivo perdigiorno…
Artista, non autore. Artigiano, non aspirante alle glorie accademiche. Regista popolare, non oggetto di retrospettive, saggi critici, omaggi. Questo avrebbe voluto essere Welles, ma prima le sue insofferenze ai meccanismi hollywoodiani e poi troppe letture e riletture critiche gli hanno costruito addosso la patina di artista maledetto, di scialacquatore di budget, di collezionista dell’incompiuto. Un’ immagine di “autodistruttivo” e “predestinato alla sconfitta” che in vita gli rovinò la carriera registica e dopo la morte continua a perseguitarlo.
Che d’altra parte sia difficile sfuggire al destino lo aveva detto nel celebre apologo della rana e dello scorpione di Rapporto confidenziale. Jean Cocteau disse di lui: “è un attivo perdigiorno, un saggio pazzo, una solitudine circondata di umanità”.