Ci sono molti modi per affrontare sulla scena il messaggio semantico prima ancora che ideologico e concettuale di Gadda. Nei lontani anni sessanta ci si provo’con humour Paolo Bonacelli allestendo nella nota cantina romana di via Belsiana l’unico excursus teatrale dell’Ingegnere, ovvero quell’incantevole scherzo con moto, come Gadda stesso lo definì, intitolato Il guerriero, l’amazzone e lo spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo. Poi, com’e’noto, ci si provò da par suo Ronconi col Pasticciaccio e facciamo grazia di qualche limitrofo essai a spese di Eros e Priapo e di un’Adalgisa di Umberto Simonetta.
Ora Lorenzo Loris si cimenta all’Out Off con coraggio e una buona dose di ironia col testo più problematico e, se vogliamo dirlo, più amaramente corrosivo della Cognizione. Che è un miracoloso saggio incompiuto ma proprio per questo prezioso e a modo suo insostituibile nel panorama letterario del secolo. Rendiamo quindi grazie una volta sia all’atroce miopia degli anni bui che ostacolarono la pubblicazione integrale del grande frammento rimastoci che al pudore di un artista. Il quale, senza rendersene conto per esteso, nella parte seconda di questo piccolo capolavoro, idealmente proseguì sullo stesso cammino intrapreso da D’Annunzio nel Notturno quando risolse l’elegia familiare nella casta mitologia degli affetti e nel ritratto a tutto tondo della casa paterna divenuta tristissima allegoria di una famiglia nazionale perduta. Perchè anche qui, nell’evocazione della villa natale come nel triste andirivieni e meticoloso aggirarsi di Gonzalo attorno alla figura archetipa di colei che gli diede la vita, Carlo Emilio senza saperlo spezzò una lancia commossa ed ironica insieme incorniciando la mitologia degli affetti nel quadro satirico ad oltranza del paese del Maragadal e dei suoi sciagurati abitanti.
Il regista, che tempo addietro lui pure ci consegnò in una commossa rilettura dell’Adalgisa il succo amaro e lezioso insieme di quella Milano, scomparsa con la sua protagonista nel buio amniotico dei ricordi, ora raduna quel gregge di disperati coloni dell’impossibile occupati a far risuonare davanti alla platea nell’eco del suo esperanto immaginario l’evo di una parola che in sé riassume ogni possibile vocabolario della comunicazione. Con un delizioso effetto choc ad onta dell’impossibile ricezione acustica e comprensione realistica del suo doloroso bestiario civile.