Quelli che vogliono chiudere il liceo classico

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liceo classico-557x262-spirlìQuando conobbi Platone e i suoi dialoghi per poco non litigai coi miei compagni di classe. Peraltro, miei coetanei. Cominciai a trovarli banali in tutto. Mentre con lui ci parlavo, ci discutevo bene.

No, non ero il classico secchione. Anzi. Rappresentante degli studenti al consiglio d’istituto per tutto il quinquennio, ero anche una sorta di capopopolo amato e rispettato. Ma, si sa, l’amicizia è una cosa seria. E quella fra me, Platone e Socrate divenne presto famiglia.

Mi innamorai del vecchio filosofo, figlio della levatrice, quando lo udii difendere la Legge davanti ai giudici e davanti al popolo, nell’Apologia di Socrate. E più ancora quando, nel Critone, rifiutò l’aiuto per la fuga, per onorare la condanna stabilita dalla Legge stessa. Mi colpì la sua onestà. E il rispetto per il suo stesso insegnamento ai giovani. Come avrebbe potuto, infatti, essere Socrate per sempre, se avesse accettato di scappare per salvare la pelle? Piansi della sua morte, ma gioii della sua eternità.

Allo stesso modo, scoprii che Giacomo non era il pessimista cosmico che frettolosi ipocriti saggisti vollero creare, per nascondere una natura più tenera e sensibile, ma, al contempo, più profonda e radicata. Era semplicemente un giovane infelice omosessuale, prigioniero di una famiglia provinciale e sorda alle sue necessità e virtù. Amava Ranieri e sperava di poter, un giorno, oltrepassare quella stupida siepe per abbracciare l’infinito. Ci riuscì, ma non subito. Dovette attendere più di cento anni, prima che qualcuno rendesse pubblico il carteggio fra lui, il giovane Leopardi, e il suo amato napoletano.

Quando lo dissi alla mia insegnante di Lettere, nel 1980, durante l’ora di letteratura, per poco non mi svenne davanti. Dopo quasi un ventennio, le inviai le lettere pubblicate, con una dedica: “Lo dicevo, io, che era Ricchione… Senza rancori. Ninospirlì”
Del mio prof di matematica ricordo i peli sul dorso delle mani. Della mia insegnante di scienze, i peli tra il naso e le labbra. Praticamente, i baffi. Non ricordo se avessi o meno un insegnate di educazione fisica.
Il prete, invece, sì. Grazie a lui – si chiamava Don Rocco Jaria – imparai a recitare (o, forse, lui si accorse che lo sapevo già fare) e divenni attore.

Ecco! Questo è il mio liceo classico: un ventre nel quale ho trovato nutrimento e protezione, amicizia e formazione.
Michele Boldrin, dalla sua, vorrebbe che sparisse e che nascesse una sorta di scuola unica per tutti. Una specie di corso preuniversitario senza poesia, ma con tanta pratica. Ma il Classico non è una scuola. È la casa di amici vissuti in altro tempo, in altra terra, in altra condizione. Letterati, condottieri, filosofi, scienziati, mistici… Tutti da frequentare, conoscere e, magari, prendere ad esempio. È il tempio dove venerare il Cielo e offrire doni alla Terra. È il mare nel quale pescare saggezza e forza di ideali. È il campo nel quale seminare vita, raccogliendo storia.
No, non è poesia. Le mie carni non lo sono. Grazie a quella forza, ho indossato serenamente la morte di chi amavo e le pene della mia umana esistenza.  Non tutte le scuole fanno scuola.
Questa, sì.

1 commento

  1. caro Spirlì, anch’io qualche decennio prima vissi un’esperienza analoga, anzi la prolungai, dedicandomi all’insegnamento dell’italiano e del latino presso un liceo milanese, dal quale fuggii evitando, per poco, il mini pensionamento..Uno dei problemi più seri della nostra scuola di ogni ordine e grado è il reclutamento degli insegnanti

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