Davanti alla decisione del maestro Muti di lasciare l’Opera di Roma, va in scena il solito valzer dello scaricabarile. A leggere i commenti degli interessati (istituzioni, sindacati, maestranze…), una sorta di lungo epicedio lamentoso, non si comprende bene perché si è arrivati fino a queste dimissioni. C’è infatti “sconcerto” tra i lavoratori che si dicono “scioccati”, poi ci sono dimostrazioni varie di “affetto”, analisi pregnanti della “disfatta”, ovviamente (finta) “solidarietà” a piene mani. Ma di chi è la colpa, non si sa. Tipico dell’Italia: siamo certi che molti stiano godendo dell’addio (il sindaco Ignazio Marino? Il sovrintendente Carlo Fuortes?), ma nessuno che se ne assumi la responsabilità. Nessuno che abbia il coraggio di dire “Caro Muti la questione è questa…”. Invece, si preferisce il commiato più irrispettoso, quello dei tardivi laudatores, che mentre accompagnano il feretro già si apprestano al nuovo corso sfregandosi le mani.
D’altronde, la lirica in Italia non è più il luogo dell’arte, semmai del trito sindacalismo: una serie di sigle (Slc-Cgil, Fials-Cisal, Libersind-Confsal, Uilcom…), si osteggiano nelle fondazioni nel nome “della cultura” più alta, sembrando però che difendano antiche prebende (le varie indennità che spettano agli orchestrali da quella per il frac, a quella per l’umidità in caso di concerti all’aperto, a quella per la tromba tedesca, qualora il direttore la preferisca alla classica). Tralasciamo che l’Opera ha 534 dipendenti, svariati milioni di debiti, e un indice di litigiosità, al proprio interno, incomprensibile. Si aggiunga che il sindaco Marino e il sovrintendente Fuortes, in questa occasione, hanno parlato senza paura del ridicolo addirittura di “rilancio e rinnovamento del teatro”, e che il ministro Franceschini si sia spinto fino al limite di capire “le ragioni che hanno portato il maestro Muti alla scelta, dolorosa per lui e per tutti”.
E tirando le somme di queste ultime dichiarazioni, ben si capiscono i torti e le ragioni più sinistre.
> Sull’addio di Muti all’Opera di Roma leggi anche l’analisi di Giuseppe Mele e l’articolo di Nazzareno Carusi