Alberto Oliva rilegge il classico di Schnitzler, perché la decadenza morale della borghesia è sempre attuale
di Enrico Groppali
Nel lontano 1924 Arthur Schnitzler sperimentò, da par suo, la tecnica del monologo interiore in un breve e intenso testo intitolato “La signorina Else”. Con apparente distacco, il grande maestro dell’inconscio mette a fuoco la psicologia di una fanciulla dell’alta società viennese che si suicida rendendosi conto di essere nient’altro che una pedina nelle mani dei genitori. I quali vorrebbero darla in pasto a un laido barone, amico di famiglia, in cambio di denaro così che il padre, avvocato incline al più vergognoso compromesso, possa ripagare un debito e salvarsi dall’arresto e dall’ignominia.
Tra la stanza di un hotel, che agli occhi della vittima si muta in una cella di lusso, e il ristorante, dove cibi prelibati vengono consumati misti alle frivole chiacchiere dei commensali, si compie il dramma: la fanciulla sta per cedere alle richieste dell’aguzzino che, dopo aver promesso di versarle la somma pattuita, le chiede di denudarsi. E’ allora che Else, nella sala da musica, si spoglia in presenza degli ospiti per sfuggire al ricatto bevendo, non vista, il veleno mortale. Nello stupendo finale, innalza un inno alla vita del tutto ignorato dai presenti.
Alberto Oliva, regista dello spettacolo, conferisce una livida grazia a questo testo-simbolo della crisi di una classe sociale ricorrendo a un impianto luci di funereo splendore. Sul palco, un musicista accompagna alla fisarmonica Federica Sandrini, giovane attrice di grande sensibilità, la quale scandisce con sapienza minimale i trasalimenti della protagonista in un requiem di cupa e straziante incidenza.
28.07.2014